Bologna Sport Time si limita a esporre i fatti e propone in esclusiva il dettagliato resoconto che Carlo Felice Chiesa, giornalista e accurato storiografo delle vicende rossoblù, ha scritto qualche anno fa per il Guerin Sportivo nell'ambito della sua Storia del Calcio Italiano, pubblicata a inserti mensili all'interno del popolare mensile.
Le
confessioni
Il
campionato 1927-28 ha preso il via, mentre le voci si susseguono
inquietanti. Finalmente, giovedì 3 novembre 1927, la svolta: «A
pratica completamente istruita» ricorderà Giuseppe Zanetti, «venne
convocato il Consiglio federale con una formula nuova. Ad ogni membro
venne inviato un telegramma del seguente tenore: “Presidente
Federcalcio desidera conferire vossignoria giorno tot ore tot presso
sede federale. Saluto. F.to il segretario”. Tutti furono puntuali
all’appuntamento, meravigliati che si trattasse di una convocazione
generale. Dopo una ampia esposizione dei fatti ricostruiti in base
agli elementi raccolti, cominciarono gli interrogatori degli
interessati e cioè: Allemandi, Nani, Gaudioso e il giornalista
romano. Quest’ultimo mantenne la sua versione aggiungendo anche
nuovi particolari, ma gli altri, chiamati avanti al Consiglio a
turno, negarono sempre dalle dieci della mattina a tarda sera e
solamente nella notte il dottor Nani finì per confessare di aver
agito di sua iniziativa e che la società non c’entrava; ammise di
aver dato all’Allemandi le venticinquemila lire di sua tasca e di
non aver versato il resto ritenendo che il giocatore non lo avesse
meritato. Dopo questa confessione fu facile avere quella del
Gaudioso, mentre l’Allemandi si chiuse nel più assoluto mutismo,
senza più escludere o ammettere fatti».
Il
crollo di Nani e la sua confessione (sosterrà sempre di avere agito
di propria esclusiva iniziativa: ma la somma di denaro era troppo
ingente per non far sospettare qualcosa di più esteso) fanno
imboccare all’inchiesta la dirittura d’arrivo.
Nella foto, l'allora presidente Figc Leandro Arpinati
Scudetto
addio
Tre
giorni dopo, proprio a Bologna è in programma una fondamentale
partita della Nazionale contro l’Austria di Hugo Meisl per la Coppa
Internazionale e proprio la mattina di domenica 6 novembre, terminata
la maratona processuale durata tre giorni, Arpinati fa diffondere un
comunicato esplosivo: raggiunte le prove, anche tramite confessione,
della corruzione perpetrata, «il Direttorio federale delibera:
1.o
Al Torino F.C. viene tolto il titolo di campione assoluto d’Italia
per l’anno sportivo 1926-27.
2.o
Sono squalificati a vita con divieto di ricoprire cariche federali o
sociali i membri del Consiglio direttivo reggente il Torino F.C. nei
mesi di maggio e giugno 1927.
3.o
Viene sciolto il Consiglio direttivo reggente successivamente il
Torino sino ad oggi, i cui dirigenti si intendono squalificati per
due anni perché nonostante i sospetti suscitati e le confessioni
rese loro dai colpevoli, non hanno denunziato come di dovere i
responsabili del deplorevole mercato.
4.o
Al Torino F.C. vengono addebitate le spese dell’inchiesta
conglobate nella somma di lire 10 mila, da versarsi entro il corr.
mese di novembre.
Il
Direttorio federale si riserva infine di meglio identificare per i
provvedimenti del caso le responsabilità ed i responsabili di parte
juventina».
Il
“mostro” svelato
Alcuni
giornali escono in edizione straordinaria. È lo scandalo degli
scandali, nel quale resta un grande punto interrogativo: chi sono i
giocatori coinvolti?
Il
clima nel ritiro della Nazionale a Bologna è tesissimo e il mistero
viene svelato in anteprima agli azzurri
da Enrico Craveri. Fulvio Bernardini, allora tra i “big” della
Nazionale, così rievocherà l’episodio: «La
bomba esplose allo stadio bolognese, mezz’ora avanti l’inizio
della partita! Arrivò l’avvocato Craveri, dirigente della
Juventus, negli spogliatoi dove stavamo preparandoci, e in un baleno
la grave notizia arrivò sino a noi: al Torino era stato revocato il
titolo di campione d’Italia e Luigi Allemandi, che l’Inter aveva
acquistato dalla Juventus, squalificato a vita. Non so con precisione
cosa provassero gli altri, ma ricordo che io mi sentii immediatamente
svuotato di ogni volontà e con una grande tristezza nel cuore. Del
resto, la partita con l’Austria mise in chiaro che tutti gli
azzurri erano irriconoscibili. La squadra vera era rimasta negli
spogliatoi, attaccata alle feroci parole dell’avvocato Craveri,
l’unico, il solo sconosciuto protagonista della giornata».
Nella foto, Luigi Allemandi
Bologna
a bocca asciutta
Al
grande pubblico il nome del giocatore colpevole viene rivelato poco
dopo: lunedì 7 novembre la “Gazzetta dello Sport” pubblica
un’intervista da Bologna
con il presidente Arpinati: «Il
football italiano è pervaso da qualche tempo a questa parte da un
sottile veleno che lo mina alle origini. Guai se il pubblico comincia
a dubitare che anche nel football, giuoco collettivo e passionale al
massimo grado, siano possibili losche ed interessate pattuizioni di
singoli, intese a falsarne i risultati sportivi.
Non
sono uomo da misteri. Dite pure, prima ancora che esca il comunicato
ufficiale, che stanotte mi è stato possibile individuare il
giocatore verso il quale il signor Gaudioso avrebbe esercitato con
successo la propria opera di corruzione. Si tratta dell’ex
juventino Allemandi, che ho intenzione di squalificare a vita. Ove
altre responsabilità venissero alla luce, colpirò con la medesima
fermezza: ne potete essere certi».
E
il titolo di campione d’Italia – domanda il cronista – passerà
ora al Bologna? «Assolutamente no. Il risultato dell’inchiesta è
tale che ho riportato l’impressione precisa che talune partite
abbiano falsato l’esito del campionato. Il Bologna non avrà perciò
il titolo tolto al Torino; il campionato 1926-27 non avrà il suo
vincitore. L’esempio servirà, ne sono certo, di monito e varrà,
mi auguro, a migliorare la situazione calcistica che è in questo
momento di una delicatezza e di una gravità senza pari».
Duro
e “puro”
L’esclusione
del passaggio del titolo alla seconda squadra in classifica sarà poi
variamente interpretato. Su tutto, aleggerà il senso di onestà
intellettuale cui gran parte della vita pubblica di Leandro Arpinati,
personaggio controverso come pochi, è ispirata.
Uomo
di forte personalità, Arpinati è l’unico tra i gerarchi da cui il
Duce accetti critiche anche spietate; fino a che la corda si
spezzerà, fermandone bruscamente l’ascesa politica: antinazista di
fronte all’ascesa di Hitler (lo storico De Felice lo definirà
«politicamente un puro»), verrà denunciato il 3 maggio 1933 da
Achille Starace a Mussolini e da quest’ultimo costretto alle
dimissioni per generici “motivi personali”. Nell’occasione
lascerà anche la presidenza federale. Assaggerà la caduta in
disgrazia e il confino e infine si ritirerà a vita privata presso
una tenuta agricola – Malacappa – a venti chilometri di Bologna
sotto gli argini del Reno, di cui farà un’azienda modello. Qui,
all’alba del dopoguerra, tra gli amici di opposta fede politica cui
avrà concesso riparo, verrà abbattuto con spietata sbrigatività da
un partigiano, davanti agli occhi sgomenti della figlia giovinetta.
Non
è forse infondata dunque l’ipotesi che uno scrupolo personale gli
abbia impedito di avallare quello che avrebbe potuto suonare come un
favore alla squadra della sua città. Tanto più che già il “caso
Pinato” aveva gettato ombre inquietanti su possibili volontà di
favorire la squadra rossoblù; tentativo, come abbiamo visto,
probabilmente stroncato proprio dallo stesso numero uno federale.
Allo stesso modo, è molto verosimile che a spingerlo alla decisione
sia stata la motivazione da lui stesso addotta: in quel campionato si
erano verificati parecchi episodi torbidi, troppi per consentire a
cuor leggero l’assegnazione del titolo di campione d’Italia.
Onore
perduto
Il
9 novembre 1927 gli ormai ex presidente Marone e consiglieri del
Torino emettono un comunicato ufficiale sulla vicenda: «Essi
affermano sulla legge di onore che furono tutti estranei all’opera
di corruzione svolta dal dottor Nani; colla coscienza tranquilla di
poter dimostrare la nessuna partecipazione al fatto che ha dato luogo
ai giudizi sommari ed ai provvedimenti punitivi contro i membri degli
ultimi due Consigli direttivi del “Torino F.C.”, hanno deliberato
di presentare istanza al Direttorio F.I.G.C. affinché sia aperta
indagine per l’accertamento delle loro responsabilità
individuali».
Ci
sarà tra l’altro una breve appendice in sede di magistratura
ordinaria (all’epoca ancora non vige la “clausola
compromissoria”, che verrà introdotta, vedremo a suo tempo in
quale avventurata congiuntura, solo negli anni Cinquanta). Eccone il
racconto di Giuseppe Zanetti: «Come sempre avviene in queste
circostanze, i colpiti si ritennero vittime di calunnie e di soprusi
sostenendo di essere ingiustamente colpiti. A troncare queste manovre
intervenne la stessa Federazione che invitò i dirigenti colpiti a
ricorrere alle vie legali. Il processo ebbe inizio a Bologna ma, dopo
la prima seduta, la querela venne ritirata perché troppo chiare
erano le prove fornite al Tribunale dai dirigenti federali, prove
tali da non ammettere dubbi sulla colpevolezza dei puniti».
Allemandi
e gli altri
La
sentenza definitiva, che sul piano sportivo viene emessa il 21
novembre 1927, a sorpresa chiama in causa anche altri giocatori e fa
cenno a un giro di scommesse: «Il Direttorio federale, conclusa ogni
indagine e completamente esperite tutte le inchieste connesse al
deprecato episodio, conferma in ogni sua parte il precedente
deliberato; converte nella squalifica a vita l’inflitta sospensione
al giuocatore Luigi Allemandi, della cui colpevolezza è stata
pienamente raggiunta la prova; richiama il giuocatore Munerati a una
più esatta e rigida comprensione dei suoi doveri, in quanto un
giuocatore tesserato non può accettare doni di qualsiasi entità o
natura da parte di iscritti ad altre società; deplora e proibisce il
mal costume delle scommesse, anche di lieve cifra, specie quelle
tenute contro le sorti dei propri colori ed ammonisce per questa
trasgressione il giuocatore Pastore; lieto di constatare come
l’episodio che ha dato luogo alle accennate sanzioni sia
circoscritto ad un solo giuocatore e non possa quindi gettare ombra
né onta sulla grande massa dei giuocatori italiani, confida che il
severo esempio valga a mantenere la più rigida probità sportiva in
ogni campo ed in ogni uomo, onde il nome del nostro Calcio nulla
perda della sua tradizione di nobiltà e di purezza; il Direttorio
federale constata inoltre nulla essere risultato che possa fare
ricadere colpa al Juventus F.C. ed ai suoi dirigenti; la domanda
presentata dagli ex dirigenti del “Torino F.C.” per
l’applicazione del decreto di amnistia del 25 agosto 1927 sarà
presa in considerazione dopo che i ricorrenti avranno con chiarezza
definite le responsabilità individuali. F.ti: Il Presidente: on.
Arpinati Il Segretario: G. Zanetti».
Nelle due foto, Munerati (in alto) e Pastore (in basso)
Dubbi
inquietanti
Nonostante
il generoso impegno, anche letterario, il comunicato conclusivo
lascia parecchie zone d’ombra. Appare evidente, infatti, che altri
giocatori si sono macchiati di colpe gravi. E il sibillino accenno
all’onestà della “gran massa” degli atleti del campionato,
cosa sta a significare? Al di là degli scontati commenti ufficiali,
impietosi contro Allemandi («unico elemento bacato » scrive “La
Stampa”), negli ambienti sportivi è diffusa la sensazione che il
difensore ex juventino, eccellente protagonista della partita
incriminata, si sia prestato a “coprire” un collega, magari
quello cui il pallone è passato tra le gambe.
Il
torinista Baloncieri anni dopo commenterà in modo inquietante la
vicenda: «Venne provata la corruzione? E allora perché il presunto
colpevole venne in seguito amnistiato lasciando il giudizio di
colpevolezza nei confronti della squadra? Come mai nel corso delle
indagini si era stabilito che il comportamento dell’indiziato
risultava come uno dei migliori atleti in campo nella partita
incriminata? La verità non si è mai saputa, né si saprà mai. Un
fatto dubbio si era presentato agli inquirenti: quello di sospettare
di un altro atleta oltre l’accusato che, per la sua dirittura
morale, era inattaccabile. Il dilemma venne risolto in maniera
sbrigativa. Qualcuno ha parlato e forse ha detto più di quanto
sapesse. Conclusione? La revoca del titolo. La verità era che, alla
base dello scandalo, si erano inserite fiere rivalità fra autorevoli
esponenti del mondo politico ed industriale. Lo sport ne fece le
spese e gli sportivi di buon senso guardano ancora oggi, con
sospettosi interrogativi, la macchia che il nudo linguaggio delle
statistiche riporta come un indegno marchio di infamia sportiva».
Nella
sua storia del calcio italiano, Gianni Brera scriverà: «A questo
punto, non sembra necessario essere Sherlock Holmes per appurare come
sia andata, e subito dopo capire come abbia potuto Allemandi militare
nell’Inter di Giovanni Mauro, vicepresidente della Federazione e
temibile capo degli arbitri. I sottili ricatti reciproci avevano
lasciato alla Juventus il terzino più dotato di classe (Rosetta) e
avevano impedito al Bologna di acquistare un terzino che avrebbe
fatto irresistibile coppia con il suo Monzeglio ai Mondiali 1934».
Nella foto, lo juventino Rosetta
Per
grazia ricevuta
Va
notato che sul piano umano tra “Viri” Rosetta e Allemandi esiste
all’epoca un rapporto molto stretto: il primo è stato
l’uomo-chiave della carriera del secondo: nel 1925 è andato
personalmente a visionare lo spilungone difensore del Legnano di cui
gli avevano detto meraviglie per poi portarlo alla Juventus, con cui
ha vinto subito lo scudetto, propiziandone anche l’esordio in
Nazionale. I due però non sono sullo stesso piano: Allemandi nel
1927 è un campione in sboccio, Rosetta invece uno dei fuoriclasse
assoluti del calcio italiano. Che Carlin sul “Guerin Sportivo”
così eloquentemente racconta: «Rosetta è l’unico terzino
italiano che non distrugga soltanto ma costruisca: non libera, passa.
Poi è dei pochi che sappiano tenere la palla a terra». Insomma,
oltre che un implacabile marcatore, anche una sorta di primo regista
arretrato della squadra. Un campione dall’immagine inattaccabile.
La
squalifica di Allemandi non sarà a vita. L’anno dopo la medaglia
di bronzo conquistata dalla Nazionale azzurra alle Olimpiadi di
Amsterdam verrà festeggiata dal Regime con una generale amnistia,
grazie alla quale il grande difensore potrà riprendere la gloriosa
carriera, culminata poi nel titolo mondiale. Secondo Giuseppe
Zanetti, il merito sarà soprattutto della madre del giocatore: «La
colpevolezza era privatissima e se l’Allemandi poté ripresentarsi
sui campi, lo dovette unicamente alle domande di grazia avanzate
dalla sua mamma, domande dirette al Presidente del Coni, al Capo del
Governo, al Principe Ereditario e perfino al Re. Tutte queste
domande, affluite sul tavolo della segreteria federale, finirono per
essere portate in consiglio federale. Nessuno dei dirigenti, di
fronte alle invocazioni di una madre, poté rimanere insensibile e si
finì per emanare un’amnistia generale che comprese tutti i reati
sportivi, nessuno escluso».
Nella foto, una vignetta sul caso Allemandi pubblicata sul Guerin Sportivo dell'epoca
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