Scusate se vi rubo trenta righe. È morto Ezio Pascutti, un pezzo di storia del calcio che ha accompagnato la mia cronaca di ragazzo, decorandola di emozioni, di sapori. Aveva 79 anni. «Così si gioca solo in paradiso». Lo coniò Fulvio Bernardini, era uno slogan: ancora un po’ e sarà un indirizzo. Il Bologna più bello, il Bologna dell’ultimo scudetto. Negri; Furlanis, Pavinato; Tumburus, Janich, Fogli; Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti. Ezio è l’ultimo che il destino ha convocato, dopo Giacomino Bulgarelli (2009), Helmut Haller (2012), Carlo Furlanis (2013), Harald Nielsen e Paride Tumburus (2015).
Bologna, sempre Bologna, fortissimamente Bologna. Friulano di culla, undici di domicilio, punta di mestiere, cannoniere d’istinto. E che carattere: una selva di moccoli, una foresta di spigoli. Aveva una chierica che gli forniva un’aura da prevosto (ma non ditelo a Dubinsky, il sovietico che, in Nazionale, prese per la gola), era un’infermeria ambulante, e per infortunio non giocò la partita della vita, lo spareggio del 7 giugno 1964 con l’Inter, a Roma, due a zero, prima Fogli e poi Nielsen.
Però segnava. Però era sempre lì, in perfetto orario sul cross calibrato o il terzino sbilanciato. C’è una foto che conservo nel cuore della memoria. Un pomeriggio al Comunale, 4 dicembre 1966: Bologna-Inter 3-2. Ero in curva, prigioniero del transitor e delle sue scariche. Brutto notizie: Roma uno Juventus zero, autogol di Bercellino (per la cronaca, Beccantini è fin da bambino tifoso Juve e non ne ha mai fatto mistero, ndr).
Non era facile immaginare «là» ed essere «qua». Fu proprio il gol di Pascutti ad «allontanarmi» dalla radiolina. Di testa, in tuffo, con Tarcisio Burgnich allungato al suo fianco, come su un tappeto volante - un tappeto di chiodi - come se l’episodio non credesse ai suoi occhi, come se l’attimo cercasse un padrone.
Ecco, Ezio era così: zero dribbling ma 130 gol.
Roberto Beccantini
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